Alberto Tenenti: Introducione a la "Società di Corte" (Norbert Elias)

Perché la Corte? Nel ripiegarci sui fenomeni che ci hanno riguardato, questo tipo di domanda può apparire spontaneo - anche se, ovviamente, esso è invece condizionato dall'ambiente e dall'educazione. L'interrogativo non è di natura metafisica; non cerca: perché l'uomo? Ma perché certi avvenimenti collettivi hanno assunto determinate forme. Lo si può tuttavia definire pacificamente come un quesito di tipo storico? La risposta è tutt'altro che semplice. Il cosiddetto senso storico è in continua mutazione. Connaturato alla società occidentale da almeno due millenni, esso propone volta a volta problemi diversi ed in maniera tutt'altro che identica. Chiedersi "perché la Riforma" o "perché la Corte" implica in certo qual modo il desiderio di soddisfare una domanda globale, che sottende e va al di là dell'interrogativo specifico. La Corte o la Riforma (ma si potrebbe continuare: il feudo, il Rinascimento, ecc.) sono almeno implicitamente sentiti non come fenomeni che basta indagare e ricostruire ma come fasi di una vita che si prolunga fino a noi e di cui si vorrebbe afferrare meglio il senso proprio per cogliere meglio il significato della situazione in cui attualmente ci si trova. Anche se non fosse esattamente questa la "contemporaneità della storia", è innegabile che l'indagine è chiamata in tal modo a rispondere a delle domande esistenziali. Dopo essere stati convinti che stanno vivendo una fase di un processo plurimillenario, tanti uomini d'oggi non si fermano più a cercare "come sono andate le cose" ma si domandano perché sono andate in quel determinato modo.

Il loro "perché" è una forma ulteriore del "come", eppure inflette vistosamente il senso e la finalità del "come". Il "come" si è sovente alleato ad uno studio per così dire specialistico della storia, come se la Riforma dovesse essere spiegata dagli studiosi di storia religiosa, il feudo da quelli dell'economia e della società, ecc. Il "perché" è un quesito globale. Esso si differenzia da quello proprio della filosofia della storia, giacché non si appunta verso la ricerca del fine in funzione del quale questo o quel fenomeno si è verificato. L'interrogante non si sostituisce a Dio, non indaga un disegno provvidenziale: fa centro su se stesso, sull' hic et nunc, ed esige di capire in funzione di quello che si sente di essere. Vivere la storia non può non significare appropriarsela, darle un senso e ricercarlo proprio perché le se ne vuole dare uno che valga. A loro modo, Livio e Tacito non agivano molto diversamente: ma i loro problemi erano ben differenti da quelli di oggi. Per qual motivo non si cercherebbe ora di chiarire i nostri con l'ausilio di quanto è accaduto a chi ha vissuto prima, attraverso esperienze analoghe o che comunque si ritengono illuminanti? Dopo aver cercato di analizzare le forme di dominio dell'uomo sull'uomo o le credenze religiose, la costituzione degli ordini e delle classi sociali, cosa ci vieta di rivolgerci con analoghi intenti verso la Corte? Non rischia anch'essa di dirci varie cose, di chiarirci molte idee, se ogni grande fenomeno umano non esaurisce il proprio significato nell'epoca in cui si è svolto, ma lo proietta altresì -magari ancor più- sugli uomini che lo riesaminano e su tutti coloro che li seguono in questa presa di coscienza? E' abbastanza vero che la Corte è una delle ultime venute nell'interesse degli studiosi, ma non è certo questo un motivo valido per dubitare della sua importanza, della sua capacità di contribuire ad interpretare in modo adeguato la civiltà di cui si fa parte.

Questo libro dell'Elias non riguarda affatto la Corte in sé e per sé e neppure tutte le configurazioni sociali cui si potrebbe dar questo nome. Non solo l'autore non ha inteso prendere in esame Corti extraeuropee, ma non vi si è riferito neppure come termine di paragone. Anzi, egli non ha trattato della maggior parte delle Corti europee e, prescindendo altresì da quelle medioevali e rinascimentali, ha appuntato il suo sguardo su quelle francesi del Sei-Settecento, in particolare su quella di Luigi XIV. Osservare come il Re Sole risolse i suoi problemi gli è parso di attualità proprio in quanto, ai suoi occhi, il sovrano francese si venne a trovare alla svolta di un sistema di vita e di potere che aveva investito tutto il nostro continente. Se questo è vero, ha arguito l'Elias, era del più grande interesse installarsi all'interno di quella Corte ed esaminare i meccanismi, farne un vero e proprio osservatorio della società precedente e successiva. Egli assume come punti fermi che la centralizzazione assolutistica ebbe inizio solo durante il regno di Luigi XIV e che contemporaneamente si affermò in tutti i suoi caratteri una determinata struttura sociale che risultò esemplare. Quello che più gli preme è dunque di mostrare come la Corte di quel monarca ebbe una funzione rappresentativa di ampio significato, considerandola come la fase di stallo di un lungo processo di maturazione ed insieme la premessa di un successivo disgregamento. Essa gli appare una totalità, in quanto risultò l'incarnazione di un sistema ed insieme il suo vertice emergente e parlante. Rispondere alla domanda: "perché la Corte", non equivale perciò, secondo l'Autore, ad analizzare come funzionava nei suoi vari aspetti o chi la componeva in modo esauriente, ma scoprirne il significato all'interno dello sviluppo della storia europea nonché dare a quest'ultima un senso alla luce del come si configurò quella Corte.

L'Elias è sociologo e non fa mistero: la sua risposta vuol quindi assumere un valore sociologico. Si è detto quanto poco il porre simile tipo di quesiti fosse pacificamente storico, anche se degli storici se li sono posti. L'Elias, dal canto suo, intende distinguersi dalla maggior parte degli altri sociologi proprio in quanto afferma di essersi impegnato in un lavoro empirico e minuzioso di rilevamento di fenomeni concreti verificatisi nel nostro passato. Egli polemizza contro i sociologi e contro gli storici poiché ciascuno lavora per proprio conto.

Accusa inoltre i secondi di non chiarire ed approfondire abbastanza il loro bagaglio teorico e concettuale, mentre rimprovera ai primi di non nutrire le loro rielaborazioni con le conoscenze fornite dalla storia. Egli ha effettivamente cercato di attingere a queste ultime prima di formulare le proprie ipotesi interpretative, scrutando la realtà della Corte, rispettandone la peculiarità e non sottovalutandola malgrado la diversità da quanto oggi ci è dato di osservare. Non ha mancato di offrire degli scorci retrospettivi, anche se nella maggior parte dei casi essi sono caratterizzati da una rapidità molto riassuntiva. Ha comunque dimostrato di essere sensibile alla dimensione temporale, alla varietà dei suoi processi, alle sopravvivenze secolari di certi elementi soprattutto culturali. Senza dubbio la luce storica che illumina il suo panorama emana tutta dalla Corte di Luigi XIV e tutto quanto ne viene investito rinvia ad essa come in un gioco di specchi. Eppure v'è nelle sue pagine la percezione della vita europea come un tutto, per quanto venga preso in considerazione in modo pressoché esclusivo il fenomeno della Corte e questo sia utilizzato per di più come una chiave sicura per comprendere e spiegarne adeguatamente molti altri. V'è, soprattutto, la vigile coscienza che nessuna individualità ha un senso al di fuori del complesso sociale di cui fa parte e che nello stesso tempo ciascuna concorre a creare il campo delle reciproche dipendenze.

V'è insomma assai più di quanto occorra per riconoscere che l'Elias ha tenuto ben maggior conto delle esigenze storiche di quanto in genere facciano gli storici nei riguardi di quelle sociologiche. Se poi sociologo egli rimane, v'è certamente un motivo di più perché quanti si interessano o praticano una di queste discipline, o ambedue, osservino da vicino come è stata condotta quest'indagine. Come l'Autore precisa in modo esplicito, egli si propone di comprendere i comportamenti degli uomini: gli appare perciò essenziale ricostituire i loro giudizi di valore. Gli uomini infatti si legano tra loro in specifiche "formazioni". Il termine appare deliberatamente neutro, anche se può riuscir talora generico nel suo impiego: la Corte, ad esempio, è definita come una " formazione composta da singoli individui". Di gran lunga più operativo di questo concetto appare comunque quello di "interdipendenza", vera e propria nozione chiave di tutto il libro. L'Elias non ha certo studiato la Corte di Luigi XIV a caso o soltanto per simpatia: vi ha scorto soprattutto un esempio particolarmente adatto per applicare i propri canoni d'interpretazione. Per quanto egli la qualifichi altresì come "fantomatico perpetuum mobile", tale Corte ha sedotto l'Autore poiché entro la sua cerchia ognuno era legato all'altro, nessuno escluso. Lo stesso Re Sole era come prigioniero del suo meccanismo: in certo modo non solo non lo dominava ma ne era dominato. L'interdipendenza dell'Elias non opera inoltre su di un solo piano, fra un individuo e l'altro, ma anche fra i gruppi che essi costituiscono. Essa genera le istituzioni stessetra le quali, appunto, le Cortiche sono i prodotti di determinate divisioni del potere "nell'equilibrio delle tensioni tra gruppi umani interdipendenti".

Il punto di partenza dell'Autore ha quindi qualcosa di gravitazionale, ciò che realmente si può osservare essendo una massa di uomini interdipendenti che si agglomerano in specifiche formazioni. L'obbiettivo dell'analisi è allora quello di giungere ad identificare le interdipendenze attraverso le quali lo sviluppo di una certa formazione sociale si inserisce nello sviluppo dell'intero ambito di funzioni sociali. Per arrivare a tale meta sociologica e globale occorrono, secondo l'Elias, dei "modelli" di interdipendenza non troppo labili ed egli ritiene di averne individuato uno appunto nel quadro della società di Corte che egli ricostituisce. La catena delle interdipendenze è alla base del sistema di Corte e dello stesso potere regio. Questi concetti formali vengono integrati da una componente storica che viene definita "formula del bisogno". Le interdipendenze non hanno senso che nel tempo e nello spazio ed occorre quindi capire che cosa spinse uomini e gruppi diversi ad affluire alla Corte e ve li tenne legati. L'Elias riprende le analisi secondo le quali la nobiltà di spada francese risentì assai bruscamente, verso la fine del Cinquecento, dello scadimento del suo peso specifico per il passaggio dal tipo feudale di cavalleria a quello mercenario e per gli effetti economici dell'afflusso dei metalli preziosi dall'America. Per mantenere il suo rango ed il suo prestigio tale nobiltà venne a dipendere sempre più dal favore del monarca. Questi consentì ad accordarlo non solo e non tanto per solidarietà di classe -in quanto, cioè, egli stesso era il primo gentiluomo del suo regno- ma per raggiungere pienamente i propri obbiettivi di potere assoluto. Più e meglio dei suoi predecessori - Enrico IV e Luigi XIII- il Re Sole pervenne così a controllare la nobiltà vincolandola entro il meccanismo della Corte, se ne potè servire deliberatamente come contrappeso alla borghesia ed alla nobiltà di toga ed infine innalzò se stesso ad un livello di sovranità personale di cui, cartesianamente, non si poteva immaginare uno maggiore.

Nello studio delle strutture sociali come formazioni di individui interdipendenti l'Autore riconosce di aver messo in evidenza soltanto alcuni aspetti dei mutamenti subentrati nelle interdipendenze caratteristiche della società francese e di averne lasciato altri nello sfondo o nell'oscurità. Tra quelli che sono stati messi in disparte ve ne sono alcuni che riguardano direttamente la Corte. L'Elias non nasconde infatti che all'interno di essa vi erano due ordini di rapporti con il monarca: quelli effettivi e di potere e quelli codificati dal cerimoniale. Benché egli ammetta senza difficoltà che i primi contarono assai più dei secondi, li mette nettamente tra parentesi. Si tratta in buona parte di una scelta; l'importanza e la funzione delle élites borghesi non viene affatto misconosciuta ma l'opera è condotta come se la loro analisi esulasse dal suo campo d'indagine. La società di Corte di cui vien trattato, in altri termini, non corrisponde alla complessa struttura che reggeva la Francia ma quasi esclusivamente al comportamento reciproco dei cortigiani e del monarca. Quando l'Autore afferma che la Corte del Re Sole fu dapprima uno degli organi centrali e poi l'organo centrale in assoluto, sembrerebbe che ne prenda in considerazione l'intero funzionamento. Quello che gli interessa, in realtà, su cui si concentra, è la condotta di quei nobili che non si rassegnarono a rimanere più o meno modestamente sulle loro terre ma giudicarono di gran lunga preferibile installarsi in modo più o meno permanente vicino a Luigi XIV, tra Parigi e Versailles. L'Elias non disconosce che anche alti funzionari civili facevano parte della Corte, ma li considera "per lo più come figure marginali, seppure spesso assai potenti". Più che di negligenza storica si tratta quindi di opzione sociologica. Il problema dei borghesi, o dei borghesi-gentiluomini, cioè, non gli pare rilevante ai fini della dimostrazione. Egli constata pure senza imbarazzo che in Francia la nobiltà di Corte nei secoli XVI e XVII risultò formata in parte da discendenti di famiglie non nobili, giacché il suo scopo precipuo non è quello di offrire un'analisi di storia sociale ma di rintracciare le coordinate dell'esistenza sociale di un gruppo ben determinato: quello dei cortigiani.
È probabilmente questo il punto nevralgico dell'opera, che ci riconduce anche al punto da cui si son prese le mosse quando abbiamo qualificato di esistenziale una domanda quale: "perché la Corte"- . Le ambizioni degli storici, quando esse esistono, sono in generale molto più nascoste di quelle dei sociologi: comunque, rimangono profondamente inconfessate. Gli studiosi di storia, quando non si appagano della lussureggiante varietà dei loro campi di ricerca, nella maggior parte dei casi sembrano proporsi come massimo obbiettivo il rigore intellettuale della loro ricerca. Questa però -malgrado la passione che i suoi cultori inevitabilmente vi trasferiscono, malgrado cioè le scelte ed i metodi che non possono non condizionarne i risultati - sembra proibire uno sbocco operativo sul presente nonché qualsiasi applicazione diretta alla società odierna dei meccanismi di funzionamento di quelle che l'hanno preceduta. Poiché il senso storico consiste soprattutto nel riconoscere una fisionomia precisa e come irripetibile alle diverse fasi del divenire umano, ai vari fenomeni che ne hanno caratterizzato il flusso, esso praticamente non consentirebbe di gettare dei ponti per passare senza mediazione dall'oggetto di studio a quello dell'esistenza. Mentre un profondo sentimento di consustanzialità dà fiducia allo storico, lo spinge a visitare e capire le generazioni trascorse, una sorta di coscienza professionale gli vieterebbe di ripercuotere sull'oggi la verità di ieri. Quest'inibizione non vale invece per il sociologo che, se pur s'immerge nella dimensione temporale come ha fatto l'Elias, non rinuncia per questo a rinvenire delle norme valide entro un raggio d'azione che ingloba i passato ed il presente. Egli è, naturalmente, conscio della eventuale approssimazione dei suoi risultati ma li presenta almeno come un'ipotesi, un "modello" applicabile e capace di reggere il più a lungo possibile.

Per l'Autore questa operazione è comunque valida nello studio dei comportamenti ed è su tal piano che intende procedere alla verifica del suo assunto. Quando egli parla di interdipendenze, non si riferisce a condizionamenti geostorici, a motivazioni religioso-culturali che valicano i secoli ed i millenni e nemmeno a fenomeni demografici, economici o militari che irrompano e sconvolgano il volto delle cose. Il suo ubi consistam è l'esistenza sociale e cioè la posizione che ogni individuo e ciascun gruppo pretende di avere e di veder riconosciuta. Anche se ciò può apparir semplificante, mentre il sapere dello storico non può non essere pluridimensionale (ed anche da questo derivano i suoi impacci o la sua forzata prudenza), quello del sociologo appare unidimensionale e ciò gli permette un maggior ardire teorico. L'interdipendenza dell'Elias è funzionale e ciò vuol sottolineare che l'azione e la decisione di ciascuno sono correlate a quelle degli altri. Nella sua società di Corte tale correlazione non coinvolge interessi economici, religiosi o di altra natura; essi sono messi tra parentesi e come presupposti: quello che vien considerato essenziale è il tipo di relazione umana che intercorre tra coloro che compongono tale ambiente. Per l'Autore, all'interno del mondo di Corte l'individuo viene osservato sempre nell'intreccio dei suoi rapporti sociali, come un uomo in rapporto con altri uomini. Per lui, tuttavia, questi rapporti hanno tutti la medesima natura e si riconducono allo stesso metro: la considerazione di cui una persona godeva si identificava, in quel contesto, con la sua esistenza sociale. Malgrado i suoi richiami ai bisogni della nobiltà di spada, egli non esita quindi ad affermare che "esistere in quanto persone di Corte è un traguardo fine a se stesso". La realtà sociale così intesa tende a confondersi con la posizione sociale e addirittura con i comportamenti che le danno un contenuto, siano quelli dell'interessato o degli altri, effettivamente legati in modo indissolubile, "senza distinzione tra pubblico e privato".

Si comprende allora perché l'Elias abbia preso in considerazione in maniera pressoché esclusiva il modo di abitare dei cortigiani e del sovrano nonché il cerimoniale che ne regolava i quotidiani rapporti reciproci. Si scopre altresì il motivo per cui, ad esempio, Colbert viene menzionato una sola volta e la sua influenza equiparata ed assimilata a quella di certe favorite del Re Sole. S'instaura così un vero e proprio gioco fra la realtà nel senso più complesso, ed in certo modo storico, e la sua rappresentazione: in altri termini fra la struttura sociale e l'etichetta. L'Autore trova che la seconda corrisponde così bene alla prima che quello che si può affermare della seconda vale anche per la prima. Si arriva in tal modo ad una sorta di identificazione tra conflitto di gruppi e conflitto di precedenze. La lotta per garantirsi una certa posizione entro l'ordine gerarchico di Corte viene assimilata alla lotta per il potere, in quanto modificare o abbandonare il cerimoniale avrebbe significato compromettere lo stesso tipo di potere vigente. Il cerimoniale essendo divenuto il linguaggio obbligato dei rapporti sociali, esso non poteva non essere parlato -in quel determinato contesto- da chi voleva farsi valere. "L'etichetta veniva rispettata controvoglia, ma standovi dentro non la si poteva infrangere; e non soltanto perché il re esigeva che venisse mantenuta intatta, ma perché l'esistenza sociale stessa di quanti vi erano coinvolti vi era legata". Per gli strati dominanti di questa società intaccare o, peggio che mai, sopprimere quelle chances di potere equivaleva quasi ad un tabù e qualsiasi tentativo avrebbe incontrato la più ampia ostilità di quanti temevano, forse a ragione, che l'intera struttura dominante da cui ricevevano quei privilegi sarebbe stata in pericolo o sarebbe addirittura crollata se si fosse intaccato l'ordine tradizionale anche se in un dettaglio di scarsissima importanza. Così tutto restava come prima.

Piuttosto che essere considerato una proiezione simbolica o un riflesso analogico, il parallelismo tra relazioni cortigiane e rapporti sociali viene assunto come il significato ultimo del mondo dell'Ancien Régime tra l'inizio del regno personale di Luigi XIV ed il 1789. La grande abilità del Re Sole sarebbe consistita appunto nell'orchestrare l'etichetta e il cerimoniale come strumenti di dominio a corte e di sovranità. Esistevano bensì due piramidi sociali che facevano rispettivamente capo ai ministri borghesi ed ai Parlamenti da un lato, agli aristocratici "curializzati" dall'altro. Ma queste élites monopolistiche del regime erano prigioniere delle istituzioni e concorrevano reciprocamente a mantenersi nelle posizioni privilegiate acquisite. Ne derivò l'immobilismo e la cristallizzazione: ognuno essendo legato all'altro e difendendo tutti l'equilibrio esistente, ogni riforma un po' radicale non poteva che naufragare. Ogni privilegiato non pensava che a conservare i propri privilegi: "ciascuna delle due parti sorvegliava con occhi d'Argo che non diminuissero le proprie chances". Chi osservava l'etichetta non dimostrava con ciò stesso di essere portatore di tali chances? In una simile società il prestigio non valeva nulla se non era confermato dal comportamento altrui. La molla decisiva e la norma che regolava la condotta dei gruppi elitari era quindi quella di mantenere le distanze: ora l'etichetta "esprimeva compiutamente il fatto che tale distanza era una finalità in sé". Anche se rango e potere non coincisero neppure alla Corte del Re Sole, l'Elias sostiene che nessuno seppe uscire dal meccanismo di interdipendenza che si era instaurato. L'unica via di uscita era la rivoluzione. Quando finalmente questa sopravvenne, non rovesciò solo il monarca né solo i privilegi aristocratici, ma le più alte roccaforti del prestigio borghese come i Parlamenti.
Non è questa la sede per approfondire se i rapporti di prestigio tra individui o fra gruppi -con i loro giochi di equilibri e tensioni- siano sufficienti per ricostituire la dinamica delle lotte sociali e non si debba ulteriormente ricercare ciò che a sua volta li provoca. Rileviamo almeno che dall'osservatorio in cui si è installato l'Elias ritiene di poter decifrare tutta una serie di fenomeni ed innanzitutto il romanticismo. L'etichetta fu infatti una forma di razionalizzazione delle reciproche interdipendenze ed impose un autocontrollo che non potè non risultare una forma di costrizione. Le costrizioni dall'esterno trasformandosi in autocostrizioni avrebbero avuto un ruolo decisivo nel far nascere forme di rigetto e quindi sulla genesi dei movimenti romantici. Un sintomo preciso di questi ultimi è quello di esprimere "carenze affettive, provocate dall'inserimento in una rete sempre più ampia e differenziata di interdipendenze e altresì dall'accrescersi di costrizioni politiche esterne e di autocostrizioni". Secondo l'Autore questo fenomeno è strutturale né si deve ravvisare soltanto in quello che si manifestò fra Sette ed Ottocento e prese appunto il nome di romanticismo. Esso ha una radice umana in certo modo fuori del tempo, nel conflitto cui soggiacciono gli uomini i quali non possono annullare le costrizioni che debbono subire (siano esse politiche o culturali o un misto di entrambe) senza distruggere le fondamenta ed i contrassegni della loro superiore condizione sociale, senza distruggere ciò che ai loro stessi occhi dà significato e valore alla loro vita, senza distruggere insomma se stessi. In altri termini, al costituirsi della società di Corte avrebbero corrisposto la nostalgia per la campagna, l'idealizzazione della natura, il vagheggiamento degli amori pastorali, appunto come contropartite delle costituzioni della Corte e della cultura sociale. La contraddizione risiedeva nel fatto che coloro stessi che si abbandonavano a queste reazioni non intendevano affatto lasciar la reggia o vivere proprio come i pastori. Essi avevano interiorizzato tanto le loro autocostrizioni da non potersene di fatto separare, anche perché esse erano indissolubilmente legate a quei contrassegni della loro elevazione sociale cui non intendevano rinunciare. Ma il romanticismo di Corte ed il romanticismo borghese sarebbero senz'altro analoghi: nonostante tante discontinuità esisterebbero linee di raccordo ben precise tra le loro rispettive forme di evasione. Anche nell'ambiente borghese si anelerebbe da un lato a conservare i vantaggi ed i privilegi inerenti al proprio livello e nello stesso tempo a sottrarsi alle servitù che ne conseguono. Il ponte con l'esperienza contemporanea è così stabilito (anche se non è detto che l'Autore abbia deliberatamente preso il cammino della Corte del Re Sole per arrivarci).
Come appare chiaramente nelle ultime pagine del libro, l'opera non approda a conclusioni anticonformistiche. Pur riconoscendo che le reti di interdipendenze non sono affatto immutabili, il sociologo tiene ad affermare che una convivenza senza costrizioni è impossibile ed impensabile. Per di più, ispirandosi ancora una volta ha quanto ha scorto nella vita di Corte, egli è convinto che sinora si è osservata la società in modo unilaterale, quasi come se esistessero soltanto le costrizioni esercitate dall'alto verso il basso. A suo parere esistono altresì quelle in senso inverso, dei meno potenti sui più potenti: né si possono comprendere le costrizioni cui sono esposti gli strati inferiori senza indagare anche su quelle che gravano sugli strati superiori. Senza dubbio questi approdi dell'analisi dell'Elias non appariranno così pacifici come formalmente sembrerebbero; sono comunque solidali della traiettoria percorsa dall'indagine intera e quindi la illuminano criticamente. Si tratta ancora una volta di appurare quali risultati teorici dell'indagine su di un ambiente sociale sono trasferibili a quelli su di un altro. E certo il presente lavoro non può non contribuire notevolmente a mettere a fuoco ed affinare la riflessione su questo tipo di problemi, mentre la circospezione degli storici continuerà senza dubbio ancora a giovare all'elaborazione dei "modelli" perseguiti da altri cultori delle scienze umane.

source: http://www.lastoria.org/tenenti_corte.htm.